Chi sono

Sono stato a lungo un cronista politico-parlamentare. Ma nel 2013 ho compiuto la scelta che meditavo già da qualche tempo: dopo aver conosciuto il mio ambiente professionale in profondità -ed aver avuto più di una prova dei legami di gran parte dell’élite dell’informazione con il potere o, meglio, con i poteri e i loro centri d’influenza-, ho abbandonato il mondo dei giornali.

Il mondo dei giornali, non il giornalismo. Professione che oggi esercito in un’altra forma, dedicandomi esclusivamente, e senza alcun tipo di condizionamento, a una mia antica passione: la ricerca. Un campo in cui, negli anni più recenti, si è rivelato particolarmente fruttuoso il sodalizio professionale con Mario José Cereghino. Insieme, approfondiamo aspetti “indicibili” della storia italiana, dal Risorgimento in poi, scandagliando archivi internazionali raramente frequentati dagli studiosi italiani: la ricerca costa, soprattutto all’estero; e lo Stato e le Università non la considerano tra le attività meritevoli di attenzione e risorse finanziarie.

Sono nato a San Fele, in provincia di Potenza, il 27 marzo 1954. Ma nel 1968 mi sono trasferito a Torino, dove ho vissuto per 16 anni. Lì si sono accesi gli interessi più importanti della mia vita. Il calcio, l’archeologia, la musica. Ma soprattutto la politica e il giornalismo.

Ho partecipato alla protesta studentesca del “Sessantotto” attraverso la militanza in Lotta Continua. Però me ne sono allontanato quasi subito, quando ho capito che, come altre organizzazioni della cosiddetta sinistra extraparlamentare, anche LC si stava preparando a compiere il salto dalla semplice predicazione rivoluzionaria all’organizzazione clandestina armata. All’inizio del 1972 mi sono iscritto alla Federazione giovanile (FGCI) del Partito comunista, di cui sono stato per qualche tempo membro della segreteria provinciale. Ma anche quell’esperienza non durò a lungo. Pur rimanendo iscritto, mi sono dimesso dall’incarico. Il “funzionariato” di partito era un orizzonte troppo angusto e soffocante per un giovane “ribelle” e insofferente alla disciplina.

Alla fine del 1975 ho iniziato a lavorare nella redazione dell’Unità. Dove ho avuto molti maestri, tra i quali ne voglio ricordare due con particolare affetto. Il caporedattore Andrea Liberatori, un gentiluomo toscano colto e raffinato. E il mio compagno di stanza Nino Ferrero, un ex capitano dell’Esercito che riusciva a conciliare la passione per le grandi inchieste (sue le scoperte delle infiltrazioni mafiose nel Nord e dei campi paramilitari dell’organizzazione neonazista Ordine Nuovo) con la critica teatrale e cinematografica. All’Unità di Torino sono stato iniziato ai riti fondamentali di un mestiere in cui la ricerca di fonti e notizie è tutto: il “giro” degli ospedali, delle tenenze dei carabinieri, dei commissariati di Ps e l’assidua frequentazione della sala stampa della questura, con l’orecchio incollato alla radio che collegava la centrale con le pattuglie su strada. Mi sono guadagnato così i galloni di cronista di nera.

Un settore che era considerato l’università del giornalismo. E a Torino, in quegli anni, la “nera” era soprattutto terrorismo politico: “gambizzati” o morti ammazzati ogni santo giorno. Al mattino si usciva di casa senza la certezza di farvi ritorno, la sera. «A chi toccherà oggi?», «E se fossi io il prossimo?» Anche un giornalista doveva imparare a convivere con quelle domande. I rischi erano reali, ma dovevi difenderti da solo, cavartela come potevi, perché le forze dell’ordine non avevano uomini sufficienti per garantire una scorta a tutti i potenziali obiettivi. Oltre al taccuino, alla penna e a un piccolo registratore, in borsa avevo sempre un laccio emostatico: sarebbe servito per bloccare l’emorragia nel caso in cui una pallottola avesse toccato l’arteria femorale. E poi mi avevano consigliato di guardarmi sempre intorno, di osservare ogni persona o movimento sospetti, di cambiare continuamente abitudini e percorsi. Molti anni dopo un amico, che a quei tempi aveva militato nelle BR ma poi si era ravveduto, mi ha raccontato che avevo fatto venire l’esaurimento nervoso a diversi suoi compagni incaricati di “monitorare” i miei movimenti.

Quando nel 1977 alla Fiat Mirafiori trovarono un documento brigatista con i nomi di Carlo Casalegno e del sottoscritto, su consiglio della Questura e della sicurezza del Partito, sono stato costretto a “entrare nella clandestinità” -sì, proprio così- e a trasferirmi in fretta e furia a Roma, in una redazione più grande dove sarebbe stato più facile mimetizzarmi. Ma dopo tre mesi, sono tornato a casa: tutto sommato, era preferibile affrontare i rischi legati al terrorismo che respirare l’aria romana viziata da elitarismo e nepotismo, inevitabili conseguenze di una stretta contiguità con il potere politico e le relazioni dei salotti mondani. Gli anni vissuti poi a Torino, anche se non particolarmente allegri, sono stati comunque una grande scuola di vita, fondamentali per la formazione del carattere.

Nell’aprile 1984, mi sono trasferito definitivamente a Roma, su richiesta del nuovo direttore dell’Unità Emanuele Macaluso. Mi aveva fatto un’offerta che non si poteva rifiutare: resocontista parlamentare e notista politico del giornale. Esperienza per molti aspetti formativa anche quella. Nel Transatlantico di Montecitorio o sui divani di Palazzo Madama, poteva capitare di scambiare quattro chiacchiere con Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Ciriaco De Mita, Giovanni Spadolini, Rino Formica, Alessandro Natta, Francesco Cossiga, per citare solo qualche nome. Di incrociare Alberto Arbasino, Natalia Ginzburg, Paolo Volponi. O di giocare a scacchi, durante la pausa pranzo, con Lucio Magri e con “Sasà”, il decano dei giornalisti parlamentari che aveva cominciato il mestiere all’agenzia Stefani, all’epoca in cui il Capo del governo si chiamava Benito Mussolini: e lui ne aveva di cose da raccontare!

Quello vissuto a Roma era anche il periodo del dopo Moro e delle tossine che il suo assassinio aveva messo in circolo. Continuavo ad essere attratto dai tanti dubbi e interrogativi che erano sorti già durante la mia esperienza torinese. Talmente forte era il desiderio di capire, che le commissioni parlamentari d’inchiesta erano i luoghi che frequentavo con più assiduità, e le relazioni più intense erano quelle con le personalità “informate sui fatti”.

Ma la mia lunga esperienza all’Unità -12 anni, fra Torino e Roma- era ormai destinata a concludersi. Non ne potevo più di scrivere che il Pci aveva sempre ragione e gli altri sempre torto. Chiamato  da Panorama per un primo abboccamento, nell’ottobre 1987, non ho esitato un secondo a dire di sì: i news magazine come Panorama o L’Espresso erano allora le mete più ambite per un giornalista con il gusto dell’approfondimento. Quando ne ho informato Gerardo Chiaromonte, che nel frattempo aveva sostituito Macaluso, gelida e profetica la sua reazione:  «Te ne pentirai», si era limitato a commentare abbassando lo sguardo. Il 4 gennaio 1988, il mio primo giorno di lavoro nel settimanale della Mondadori, con la stessa qualifica di giornalista parlamentare, a cui si era aggiunta quella di fatto di quirinalista. Capo dello Stato era Francesco Cossiga. Sul Palazzo, dopo la caduta del Muro e la fine della guerra fredda, si stavano abbattendo le sue picconate, insieme alla valanga di comunicazioni giudiziarie inviate dalle Procure di tutta Italia.  L’ultimo tratto della presidenza Cossiga e la caduta della Prima Repubblica sono stati gli eventi che ho seguito con più passione. Il mio rapporto con il Capo dello Stato e poi quello con Giovanni Pellegrino, prima presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato e poi della Commissione d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo, sono stati per me fondamentali. Perché grazie a loro ho compreso il nesso profondo tra gli avvenimenti del 1992-’93, la strategia della tensione dei decenni precedenti e, in definitiva, le anomalie della storia italiana: l’“indicibile”, appunto.  Un nesso sul quale non avrei mai più smesso di indagare, a 360 gradi. E mai avrei pensato di farlo attraverso i libri: è stata in qualche modo una scelta obbligata. Dopo l’acquisizione della proprietà della Mondadori e di Panorama da parte di Silvio Berlusconi (e la sua famosa “discesa in campo”), nel settimanale che aveva costruito le sue fortune proprio grazie alle sue inchieste, il lavoro di approfondimento giornalistico era diventato ormai impossibile. A meno che non fosse funzionale alla politica dell’editore. Così, stanco di essere considerato un «comunista» all’interno di Panorama e un «berlusconiano» dai nemici di Berlusconi -che se ne stavano con il culo coperto nelle redazioni “progressiste”-, e di essere un bersaglio del fuoco incrociato  dell’eterna guerra civile italiana, ho deciso di mandare tutti a quel paese, di riacquistare la mia indipendenza e di dedicarmi a cose più divertenti.

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Giovanni Fasanella

Giornalista, Ricercatore e Saggista

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